Kapalika, la tradizione del teschio umano
L’India ci ha abituato a conoscere le sue infinite sfaccettature e ad assaporare i suoi misteri. Non molti conoscono però i suoi lati più oscuri che sono raccolti principalmente in quel sentiero denominato Vāmācāra, “Via della Mano Sinistra“.

Come in Occidente, anche in Oriente esistono tradizioni e culti di matrice segreta e oscura, uomini che hanno votato la propria vita a culti oscuri. Tra loro troviamo una particolare tradizione Śivaita i cui aderenti sono chiamati Kapalika.
Gli appartenenti ai Kapalika facevano voto di portare con sé una ciotola ricavata da un teschio umano (in sanscrito “kapala“) con un bastone rituale sormontato da un teschio (katvanga) che li accompagnava ovunque e rappresentava il loro carattere distintivo. Secondo le poche fonti ad oggi disponibili, vivevano spesso nei campi di cremazione compiendo riti magici e cibandosi dei resti umani ed animali non consumati dai riti purificatori.
Il mito di Bhairava: l’origine dell’usanza Kapalika?
Tra le leggende che li riguardano, si parla delle Siddhi ovvero di particolari poteri acquisiti attraverso la pratica ascetica. Fino alla repressione britannica, i Kapalika erano diffusi in ogni regione dell’India medievale, dalla zona himalayana fino al Tamil Nadu (nell’estremo Sud) dove si trovano infatti testimonianze della loro presenza, nonostante la loro area di origine si ritiene fosse il Deccan.
La loro tradizione ha origine nel tantrismo śivaita e le fonti più antiche ci parlano di un mahavrata, o grande voto, che questi asceti sostenevano sul modello del mito di Bhairava, la forma terrifica di Shiva. Il mito è narrato in diversi testi della letteratura puranica ma la sua versione più completa e forse più antica compare nel Matsya Purana.

In questo testo antico si racconta di uno scontro verbale avvenuto tra Brahma e Bhairava, culminato con la decapitazione della quinta testa di Brahma. Dopo questo esecrabile atto, su Bhairava ricade il crimine di bramanicidio dovendo scontare dodici anni di esilio e visitando luoghi sacri di pellegrinaggio (tirtha) portando con sé il cranio di Brahma.
Bhairava giunse fino all’Himalaya, dove Visnu Narayana cercò di colmare con il proprio sangue il kapala del dio, ma neanche lacerandosi a metà e facendo sgorgare la ferita per ben mille anni divini riuscì a riempirla. Consigliò quindi a Bhairava di recarsi nel luogo in cui “il teschio si stabilirà”. Shiva Bhairava giunse, quindi, a Varanasi dove il kapala si collocò spontaneamente ad Avimukta e ponendo termine al suo castigo.
È estremamente probabile che nel mito, oltre agli aspetti rituali del culto kapalika, si riflettano anche le tensioni sociali fra bramini e asceti itineranti dalla condotta antinomica, che si cibavano di carne e avanzi e visitavano spesso i luoghi di cremazione .
Come Bhairava, il sadhaka kapalin porta con sé il kapala e il katvanga, strumento onnipresente anche nell’iconografia e nell’arte tibetana.
i Kapalika nella letteratura indiana
Esistono diverse opere della letteratura sanscrita (perlopiù di carattere teatrale) che ci raccontano dei Kapalika. La menzione più antica appartiene allo Yajnavalkya-smrti, un antico testo risalente circa al III secolo dell’era volgare in cui si prescrive per il kapalin la pena per il crimine di bramanicidio. Tuttavia rimane piuttosto dubbioso che l’autore con il nome kapalin volesse riferirsi alla scuola Kapalika.
Vi è, invece, un riferimento diretto nel Gatha-saptasati, un’antica raccolta di poesie redatta tra il III e V secolo d.C., in cui una donna che si cosparge continuamente delle ceneri della pira funebre dell’amato è chiamata “apertis verbis kapalika”.

Nel suo Brhajjataka, l’astronomo Varahamihira (500-575 d.C. circa) associa all’influenza di un pianeta ognuna delle sette categorie di asceti, e alla luna i Vrddas. Sappiamo da Utpala (che glossa il testo nel X secolo, ndr.) che i Vrddas sarebbero da identificare con i Kapalika.
Nel Mattavalisa, una commedia dal tono satirico attribuita al re pallava Mahendravarman (600-630), il protagonista è proprio un esponente della setta, Satyasoma, che vive nel tempio Ekambam, non distante dalla capitale Kanci, insieme alla compagna Devasoma. Nell’opera, come in altri drammi successivi, le pratiche kapalika vengono descritte con sdegno e scherno: Satyasoma è sempre ubriaco e alla ricerca di qualcosa da bere riempiendo il kapala.
È piuttosto significativo che anche Mahendravarman fosse un fedele di Shiva, ma rigettasse le credenze di una setta ai margini dell’establishment sociale come i Kapalika.
Altri testi ci parlano di loro in tono canzonatorio o satirico, sottolineandone però le facoltà soprannaturali.
pratiche magiche e alchemiche?
Nel l Malati-Madawa di Bhavabhuti (inizio VIII secolo d. C.) la principale antagonista è Kapalakundala, una kapalika capace di volare sopra il campo crematorio e di altre prodezze, in cerca di vendetta per l’uccisione del suo maestro Aghoraghanta che in precedenza aveva tentato di sacrificare l’eroina dell’opera. Nella piece non c’è solo spazio per yogi crudeli, anche Saudamini, che corre in aiuto dei protagonisti, ha assunto il voto kapalika.
Altre informazioni si scoprono nel Candakausika (l’ira di Kausika) di Ksemisvara, composto circa nel VII secolo. Si tratta di un adattamento del mito del re Hariscandra, costretto a diverse peripezie per placare l’ira del saggio Kausika. Nel quarto atto, lo troviamo alle dipendenze del dio Dharma, che indossa i segni propri di un kapalika e viene salutato come un osservante del mahavrata. Il dio kapalin ha molti poteri magici, tra cui controllare i vetala (vampiri) e i fulmini, oltre a possedere una grande conoscenza dell’alchimia. Il kapalika con l’aiuto del re cerca e ottiene da un vetala minaccioso il siddharasa (alla lettera essenza della perfezione) o elisir immortale.

Come per Saudamini, sembra di trovarsi di fronte a un ritratto in definitiva benevolo del kapalika. Ci sono anche diverse allusioni a pratiche magiche e all’alchimia, che dovevano in qualche modo far parte delle conoscenze attribuite a questi sadhu.
Invece, in un romanzo allegorico come il Prabodhacandrodaya di Krisnamisra, interamente volto a difendere il visnuismo contro gli altri credo, Soma-siddhanta gioca il ruolo di un kapalika smodato e lascivo che converte alla sua fede un jaina e un monaco buddista. La maggior parte dei personaggi sono personificazioni di qualità astratte che il visnuita deve ricercare e preservare, come Fede (sraddha) o Discriminazione (viveka). I nostri tre, capitanati dal kapalika, rappresentano la Passione (Mahamoha).
Il grottesco trio tenta di catturare Fede, personificazione dell’osservanza visnuita, ma fallisce nell’impresa.
Tra le fonti a nostra disposizione sui portatori del kapala risaltano due opere, l’Agamapramanya di Yamunacarya (circa 1050) e lo Sri-Bahsya (commento ai Brahmasutra) del suo discepolo Ramanuja (1017-1157), forse i massimi maestri visnuiti dell’india medievale.
Nel suo Sri-Bhasya, Ramanuja attribuisce ai kapalika sei monili: due collane, un paio di orecchini, un fermacapelli, il cordone sacro e le ceneri.
L’autore li descrive come grandi esperti nella mudra più elevata e dediti a meditare sul sé all’interno della vulva. Quest’ultima precisazione ci suggerisce l’esistenza di forme di yoga tantrico nella prassi kapalika, anche se potrebbero essere elementi più tardi venuti a sovrapporsi.